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Lo Zen e l’Arte della Manutenzione del Cesso – ottavo giorno

Sarà stata l’aria anticipatrice di festa del sabato oppure il sole che è finalmente tornato a splendere, fatto sta che oggi non si è fatto molto. Tutti si sono svegliati un po’ più tardi, e la colazione è stata lunga e conviviale. Non sono abituato a parlare così tanto di mattina, ma d’altronde qui non sto facendo nulla di abituale.

Il cemento ancora doveva asciugarsi, e quindi mentre Chris faceva alcune misure di controllo io sono andato nell’orto ad estirpare le erbacce munito di forcone. Quando si sradicano queste piante bisogna stare attenti a non strappare solo gli steli ma tirarle fuori dal terreno – appunto – dalla radice. Nell’orto di Tim sono coltivate tutte le verdure e le piante aromatiche di uso quotidiano. Prima di un’insalata è rituale la spedizione in giardino, muniti di stivali o di torcia, se è sera, e tornare con le nostre verdure dopo la nostra spesa. Prendersene cura mi pare, fosse solo per questo, un’attività molto sensata. Mentre affondavo il forcone nel terreno mi veniva da pensare alla piccola spiegazione che Tim aveva dato a tutti, durante la colazione, del concetto di permacultura, cioè agricoltura permanente. Si tratta di un sistema autonomo, autosufficiente e auto-rigenerantesi di agricoltura, in cui ogni sottosistema è legato agli altri e ad essi funzionale. Il risultato è garantirsi i raccolti della terra e, nel caso di Tim, di portare avanti un’azienda biologica, nel modo più rispettoso dei tempi della natura. Ho pensato alla mia vita di città, alla quale prima o poi tornerò, e alle poche scelte a disposizione di chi vive in un condominio, stretto nella morsa dei ritmi di una vita frenetica addolcita artificialmente da edonistici piaceri. Ho pensato con tristezza al momento in cui tornerò a mangiare frutta e verdure pallide e insipide. Tim ha un albero di albicocche, e ogni mattina qualcuno tra noi torna con albicocche fresche da mangiare con lo yogurt fatto in casa. Sono albicocche minuscole, poco più grandi di una fragola. È la dimensione del frutto quando non è dopato. Tutti noi crediamo di mangiare frutta ma in realtà mangiamo qualcosa congegnato da un’entità oscura e astratta di esseri umani, in un processo che parte dalle raffinerie dove vengono sintetizzati i fertilizzanti artificiali, per passare poi attraverso lo stretto collo di bottiglia di un sistema che prevede una misera retribuzione per il singolo contadino e una ingiusta massimizzazione del profitto da parte del più forte. La legge del più forte è una legge di natura, ma quando applicata dall’uomo la sua intrinseca tendenza/capacità di far progredire l’ecosistema verso una qualsiasi sorta di equilibrio viene falsata.

Pensavo a queste cose quando Chris mi chiama e mi chiede di aiutarlo. Per un paio d’ore continuiamo a segare i pezzi di legno che serviranno per il sostegno delle mura e del tetto del cesso. Alcuni dei pezzi che dovremmo usare stanno ancora svolgendo la loro funzione di perimetro per la base di cemento. Chris è leggermente frustrato. Quando si ha poco tempo e pochi materiali a disposizione il risultato non può essere soddisfacente, dice. Aggiungo che a rendere le cose peggiori vi è l’utilizzo di manodopera altamente non qualificata come il sottoscritto. Dopo una risata, accendiamo il laptop e mettiamo su un po’ di musica e cominciamo a segare.

Il pomeriggio lo trascorriamo libero. Tento di leggere ma il sole mi convince a una nuotata e una pagaiata nel fiume. Mi piace la sensazione di raggiungere in canoa una delle due estremità, attraverso le quali non si può passare per via del basso livello dell’acqua ma che normalmente dà sull’oceano, e rimanere immobile e a occhi chiusi, lasciandomi cullare dalla corrente. C’è silenzio, vero silenzio. Il canto di qualche uccello, l’occasionale sciacquio di un rivolo che si infrange su una delle sponde, e niente più. Anche quando nuoto, guardo avanti e vedo due sponde puntellate da una fitta vegetazione.

Tornato a casa, e con un paio d’ore ancora libere prima di cena, decido di cimentarmi in una torta, mentre Chris si dà ad altri esperimenti culinari. Mi accingo a un tipico dolce napoletano: la caprese. E qui mi rendo conto che l’unica nota stonata e incongruenza che ho trovato nello stile di vita di Tim: l’utilizzo del Thermomix. Per la mia torta avrei bisogno di un frullatore e di un normale sbattitore. La versione della ricetta per il robot prevede di mettere tutti gli ingredienti nel cestello e impostare e lasciar fare. In questo modo si perde tutta la dolce manualità del fare sciogliere il cioccolato a bagnomaria, o di rimuovere la buccia delle mandorle dopo averle scottate leggermente. Insomma, mia pare che la presenza di questo robot sia inopportuna in questa casa, dove non c’è il microonde e il bollitore elettrico, dove il tostapane sembra essere il prototipo dell’invenzione originaria, e dove si mangia prevalentemente ciò che si è in grado di produrre. Sono costretto a montare i bianchi nel chiuso del cestello, senza poterne controllare la consistenza. Ne esce fuori una poltiglia abbastanza smontata, ma che una volta unita al resto degli ingredienti e infornata, non ha un cattivo aspetto. Per renderla più attraente la cospargo di marmellata di albicocche e scaglie di cocco.

La cena è piccante e speziata. Danielle è tornata con minuscole aragoste chiamate Yabbies. Chris ha cucinato un risotto con verdure e una zucca al curry. Dopo cena ci diamo alle percussioni, ognuno con uno strumento. Tutti sembrano felici, e così io.

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Lo Zen e l’Arte della Manutenzione del Cesso – sesto giorno

Quella che ho in mente è un’immagine molto vivida, come di un film di cui si ricorda a malapena la complessità della trama ma che eppure ci ha lasciato il ricordo di qualcosa di forte. La mia immagine è il rosso brillante del sangue dei vitelli che si stagliano contro la tonalità grigia del paddock nel quale ci trovavamo. Io e Chris avevamo guidato la jeep e il pick-up fino al gate dove avremmo dovuto incontrare Tim e i due macellai. Non trovandoli, ci siamo attardati a rabbrividire nell’aria fredda dell’alba. Quando realizziamo che siamo nel posto sbagliato la mattanza è già terminata: i tre vitelli giacciono senza vita sul prato, già scuoiati a metà. Tim è sul trattore a manovrare la pala, che alzerà di peso i cadaveri, mentre i macellai fanno tintinnare le loro lame prima di affondarle nella carne ancora palpitante, e io e Chris osserviamo timorosi e incuriositi e disgustati ed eccitati al tempo stesso. Sappiamo bene che a breve sarà richiesto il nostro aiuto: dopo che i vitelli sono stati squartati, sviscerati e tagliati a metà, ci sono le interiora da buttar via. I macellai avevano fatto il loro lavoro a mani nude, con professionalità e scioltezza, e io e Chris con le nostre nude mani ci impieghiamo un po’ di più per spingere la testa, gli intestini e gli stomaci dei vitelli su per la pala del trattore manovrato da Tim. Gli organi sono ancora caldi e hanno la consistenza gibbosa di un prodotto in finta plastica. I tre animali sono stati tagliati in due, e ogni metà ridotta successivamente in ulteriori due metà. Dodici quarti di carne di vitello sono caricati sul pick-up che io guido fino a casa, mentre Tim riporta il trattore nel capannone. A Chris tocca l’ingrato compito di disfarsi delle interiora  e darle in pasto ai corvi. Lui rimarrà a casa nel pomeriggio a continuare la costruzione del cesso, mentre io accompagnerò Tim a portare i quarti di carne ad essere curati al macello.

“È molto meglio così, più naturale, più rispettoso. Un colpo secco e via. Al mattatoio sono costretti a 24 ore di fame per svuotare i loro stomaci, e sentono l’odore della morte e impazziscono di paura”. Tim mi parla mentre guida e mi racconta dell’approccio che ha sempre avuto nella sua vita di fattore, di proprietario di una farm che ostinatamente ha tenuto biologica – organic – in un mondo agricolo dominato dal propellente economico dei fertilizzanti. “È la vita di città che è profondamente iniqua nei confronti della natura. Fin quando ci sarà un così spropositato numero di persone da sfamare pochi luoghi in cui la produzione di cibo è per forza di cose intensiva e contro natura, il mondo non potrà essere guarito. Dobbiamo sapere cosa mangiamo, e se non possiamo sempre produrre il cibo di cui abbiamo bisogno dovremmo almeno comprarlo da chi lo produce in modo etico”. Al mattatoio aiuto i macellai a trasportare i pezzi di carne nella cella frigorifera, dove saranno lasciati a curare per una settimana, passando prima per la bilancia. I quarti pesano intorno ai 60 chili l’uno. Mi sfilo la salopette che Tim mi aveva prestato ed è impregnata di sangue e di grasso. Mi accendo una sigaretta con le mani ancora sporche.

Al supermercato osservo Tim. In questi giorni di vita in fattoria mi sono abituato alla sua sola presenza e modo di apparire, alla sua condotta. I suoi vestiti vecchi e il suo tipico cappello alla pescatore sembravano ora stridere con la folla dello shopping pomeridiano. Tim si aggira tra gli scaffali senza curiosare tra la merce, senza esserne attratto. Si dirige sicuro a comprare i pochi prodotti biologici che lui non può coltivare o produrre: pasta, cioccolata e poche altre cose. Alla cassa vedo la fila di persone con in mano i loro prezzi di carne economica incartati in buste bianche; snack ipercalorici e verdure pallide; patatine, prodotti precotti e surgelati, succhi di frutta. Vedo insomma ciò che ognuno di noi compra quando va a fare la spesa. Ho assistito al macello di tre animali ma il vero spettacolo aberrante mi pare questo: un profonda consapevolezza e insita pigrizia, nonché conformismo, che guida le nostre attitudini di consumatori. Tim rimane per cinque minuti a scegliere l’aceto balsamico che contiene meno coloranti e meno prodotti sintetici. È una battaglia che l’umanità non può vincere, penso con tristezza, ma che persone come lui portano avanti con determinazione. Ci fermiamo al mercato per ritirare la sua razione settimanale di frutta e verdura. Chili e chili di carote, banane, cipolle, patate, pomodori, avocado, kiwi e zucche. I loro colori sono brillanti e al tatto sono sodi. Non faccio fatica ad immaginarne il sapore.

La manutenzione del cesso è oggi poca cosa rispetto a ciò a cui ho assistito. Eppure, i tubi sono stati tagliati e incollati al punto giusto, e non resta che ricoprire di nuovo il cunicolo con il terreno. Sono più loquace e faccio notare che dovremmo considerare qualche centimetro di gioco al quale il tubo sarà soggetto. Lo spingiamo avanti di qualche centimetro e quando il nostro lavoro di pala sarà finito ritornerà nella posizione di partenza, l’unica che consentirà di collegarlo agevolmente alla latrina. Oggi sarebbe dovuto essere finalmente il giorno nel quale colare il cemento, ma come previsto arriva Danielle e i nostri piani saltano. Danielle ha guidato da Perth per tutta la mezza giornata prima di arrivare a Tallawarra. È venuta con i suoi due figli di 13 e 9 anni e un loro amico. Siamo ora in sette in fattoria, cucinare sarà un’impresa più difficile. Mentre io cucino una pasta e ceci e Chris uno sfornato di patate, Danielle aiuta Tim a trattare i pezzi di fegato e cuore avanzati dal macello di stamattina. Chiede ai suoi figli di aiutarla, e quando questi fanno gli schizzinosi dice che quella è la carne che mangiano e che gli piace tanto. Se vogliono mangiare carne è giusto che sappiano da dove proviene. Beviamo due birre e parliamo. Mangiamo e Tim e Danielle sono contenti di ritrovarsi dopo quasi un anno. Inaugurano nella loro prima sera insieme quello che sarà il motivo ricorrente di parecchie serate a seguire, e che evidentemente spiega l’intesa che i due hanno: lui improvvisa accordi e lei canta il testo di una canzone mai esistita, creata sul momento seguendo l’istinto, raccontando gli aneddoti di eventi accaduti nel loro tempo insieme o accaduti non più di pochi minuti fa. Tim poi improvvisa una seconda strofa, riprendendo quelle parole e modulandole su una melodia  che il suo orecchio da musicista rende più accattivante, e su quella melodia Danielle si diverte a lanciarsi in assolo di armonica. In un grande cesto Tim colleziona strumenti musicali – che spaziano da bonghi professionali fino a giocattoli dal suono insospettabile – e ognuno di noi ne prende uno. Siamo ora in sette in fattoria e le serate sono molto più divertenti.

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Lo Zen e l’Arte della Manutenzione del Cesso – quinto giorno

L’apparenza del giardino va mutando di giorno in giorno. Ora i tubi sono tagliati e pronti per essere sotterrati nei cunicoli che dovremo naturalmente ricoprire. Anche la base dove dovrà essere versato il cemento è quasi pronta. Rimango sempre più colpito dall’esperienza e dalla versatilità di Tim. È un vero tuttofare. Nel capannone ci sono attrezzi per ogni tipo di lavoro. Quando l’ho visto armeggiare con la macchina impastatrice, che non metteva in moto da 16 anni, riportandola in vita regolando il motore con i suoi attrezzi, non ho potato fare a meno di sorridergli. Questo cesso verrà costruito con materiali e pezzi di ricambio che giacevano abbandonati lungo la fattoria, e che lui di volta in volta è andato a raccattare con il furgone e riportato in giardino, dove io e Chris avremmo fatto il lavoro sporco. Io rispetto a Chris faccio bene poco. Oggi ho segato quattro pezzi di legno che, attaccati e avvitati insieme, serviranno come base del cesso. E vedere quel legno grezzo smussato, lavorato e lucidato dalle sapienti mani di Tim, vedere la materia prima trasformarsi fino ad acquistare insieme bellezza e funzionalità allo stesso tempo, mi ha fatto ancora una volta riflettere sull’importanza del lavoro manuale. L’altra sera a cena riportavo a Tim il pensiero di Julie che ad ogni bambino dovrebbe essere affidato, durante il percorso scolastico, come attività curricolare, un piccolo pezzo di terreno da coltivare. Oggi ho pensato che allo stesso modo ognuno dovrebbe imparare, fin da tenera età, da dove gli oggetti dell’uso quotidiano provengano, capire la relazione tra la materia grezza e sapienza artigianale. Non so in che modo questo potrebbe darsi. Ho segato i pezzi, capendo solo all’ultimo che il modo migliore per ottenerne uno dalle estremità perfettamente lisce e piatte è quello di seguire con dolcezza la linea che si è tracciata, senza affondare troppo con la sega, senza troppa pressione. L’ho capito solo a lavoro finito, un lavoro quindi non eccellente, al quale Tim però non ha dato troppo peso perché in questo caso la precisione millimetrica non era richiesta. Forse è per questo che mi era stato affidato il compito.

Ben preso li ho lasciati per andare a cucinare il  pranzo. Appena sveglio Tim mi aveva chiesto se sapessi cosa fare con l’ossobuco. Appena mi sono reso conto del movimento di assenso della mia testa avevo capito che avevo perso un’altra occasione per rivelargli che non sono uno chef. Mi sono quindi chiuso in camera e, con la scusa di consultare email importanti, ho recuperato in rete la ricetta dell’ossobuco alla milanese. A mezzogiorno ci ho quindi provato, e a parte la carne non ancora tenera a punto giusto, il sapore del sugo era delizioso. Dal mio punto di vista l’esperimento è stato fruttuoso, perché ho capito gli errori che ho fatto, dovuti per lo più alla fretta. Forse per gli altri due commensali l’esperienza non è stata altrettanto illuminante ma hanno comunque dimostrato di gradire. A cena è andata molto meglio con delle semplici uova al sugo, piatto comune a Napoli ma le cui radici israeliane ho rivangato per raccontare un po’ della mia esperienza a Tel Aviv. Non che sia riuscito ad essere molto loquace: sembra che io non sappia più parlare inglese. Questa è l’ultima notte di quiete e farei bene a dormire, domani arriva Danielle con tre bambini al seguito.

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Lo Zen e l’Arte della Manutenzione del Cesso – terzo giorno

segue (puntata precedente)

Mi viene da ridere, quante volte ci sono cascato e forse ci cascherò ancora, spostare avanti nel tempo e nello spazio la visione di un me felice e soddisfatto, senza l’ansia di stare perdendo qualcosa, mentre è nel qui e ora che dovrei essere. Quando Tim mi ha mandato in cucina dopo un’oretta scarsa a picconare in giardino, ho realizzato quanto inutile sia la mia presenza qui. Non solo non so niente della manutenzione del cesso, ma riesco a malapena ad interagire con lui. Anche se mi venisse una buona idea non saprei comunicarla. Ho fatto il pane e cucinato una bolognese scotta. Ero in procinto di radermi la barba, stava diventando facilmente associabile a questo sapore dolceamaro di sconfitta, ma prima avevo deciso di comunicare a Tim che me ne sarei andato. Non che io lo volessi, ma mi pareva di essere di troppo. In tutta risposta Tim mi ha detto che è felice che io sia qui, e che ci sono tanti lavori per i quali posso tornare utile. Gli ho chiesto dell’agnello che gironzola per la proprietà, invece di pascolare con il gregge. Mi ha risposto che non lo sa, che quell’agnello non si è mai sentito agnello, ogni volta che l’aveva riportato sui campi lui era tornato indietro. Ma va bene così, dice Tim, mi aiuta a tenere sotto controllo le erbacce, questa è la sua missione nella vita, ognuno ne ha una propria. Mi sono identificato con quell’animale, e ora ogni volta che incrocio il suo sguardo immagino un cenno di intesa tra noi due esseri viventi che non facciamo quello che tutti si aspettano da noi ma che eppure sanno dare un senso alla propria vita. Sono salito sulla jeep e accompagnato Tim per i campi, dove per la seconda volta ho potuto abbracciare l’estensione della proprietà.

Tim ha una vena malinconica, all’inizio del nuovo anno sarà costretto a vendere quella che è stata la fattoria di suo padre, più di 80 anni che la terra di Tallawarra continuava a generare i suoi frutti per gli uomini e donne e animali che l’hanno abitata e che ora dovrà passare in nuove sconosciute mani, dato che i figli di Tim hanno abbracciato la vita di città. mi mostra il pezzo di terra accerchiato da pietre rosse, dove lui e la sua famiglia e altri wwoofers e probabilmente altri sconosciuti siederanno nella notte del 21 dicembre, quando si concluderà il ciclo di 26.000 anni previsto dai Maya. Siederanno lì, in mezzo ai campi, sotto le stelle, per accompagnare l’umanità in una nuova era. Proveranno ad irradiare il loro messaggio di armonia e di un rapporto più giusto con le risorse limitate del pianeta. Ancora, va indietro nel tempo a raccontare quando, appena ventenne, era tornato da un viaggio psichedelico alimentato da funghetti rigorosamente biologici ed ebbe l’illuminazione di voler vivere una vita appartata, a contatto con la natura, coltivando e producendo ciò di cui avrebbe avuto bisogno. Da allora il suo stile di vita non è mai cambiato.

Siamo tornati a lavorare fino a che non si è fatto buio. Mentre lui e Chris progettavano, io ho recuperato le paratie dal furgone e le ho pulite ed accatastate. Dovrebbero tornare utili a breve, quando si costruirà la cabina del cesso. Intanto qualcosa sembra essere andato storto: il cunicolo che avevamo scavato in parallelo alla casa, per dissotterrare il vecchio tubo di scarico e inserire il nuovo, è troppo vicino al muro. In questo modo il water andrebbe a posizionarsi in un punto per cui, nell’angusto gioco a disposizione per questo progetto, risulterebbe difficile aprire la porta dall’interno senza costringersi a contorsioni improbabili. E poi non si è recuperato una finestra, e inoltre le estremità dei nuovi tubi non si incastrano con il sifone del water. Ma a quanto pare a questo ci penseremo – ci penseranno – domani, dopo il barbecue (di carne pregiata che Tim voleva conservare ma che è stato costretto ad usare per via di un malfunzionamento di un freezer), dopo un paio di birre, dopo una doccia. Anche io fumo l’ultima sigaretta e mi ritiro.

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Lo Zen e l’Arte della Manutenzione del Cesso – Secondo giorno

segue (puntata precedente)

Il mio secondo giorno mi ha ricordato che sono in una fattoria e non semplicemente in un campo di lavoro. Sul retro del pick-up di Tim, in piedi per bilanciare gli scossoni e beneficiare del vento, Chris ed io ci siamo fatti un’idea dell’estensione della proprietà. Sterminati campi di pastura si estendono a perdita d’occhio. Le recinzioni sono elettrificate, ma qualche varco lasciato aperto aveva permesso a qualche agnello di perdersi in solitaria. La nostra missione è quella di raggrupparli tutti, recuperare quelli malati e condurre l’intero gregge per buoni due chilometri in direzione sud-est, dove nel capannone sarà applicato un vaccino omeopatico agli agnelli con meno di un anno di età. Tim non crede ai veleni dell’industria farmaceutica, e per curare le sue ladies usa prodotti naturali. Fino ad ora non sono stati effettivi. Come io e Chris ci siamo detti, gli agnelli non sanno cosa sia l’effetto placebo. Nonostante ciò, ci siamo impegnati sotto un sole cocente a riportarli tutti verso la casa base. Che fatica! Ogni volta che dovevamo superare un varco, che li avrebbe condotti in un’area sempre più piccola, gli agnelli impazzivano di paura. In virtù della docile indole, forzati dalla mano umana, avrebbero infine ceduto, acconsentito ad essere separati. Un gregge è più della somma delle singole individualità ferine: ha una propria forma e comportamento, e trattare con un gregge poco docile è diverso che trattare con un animale ribelle. Portar via da un gregge un singolo animale significa aspettarsi una significativa rielaborazione delle gerarchie al suo interno. Alla fine siamo riusciti a condurli all’interno dell’ultimo cortile, e a quel punto Tim mi ha riaccompagnato alla casa, dove avrei cucinato il pranzo in attesa che lui e Chris finissero con la somministrazione di medicine. Non sono stato molto contento della decisione, ma quello che avevo visto era stato abbastanza e forse Chris si sarebbe dimostrato più utile. Inutile recriminare. Ho cucinato un’insalata con quinoa, rabarbaro, rucola, fagioli e tonno.

Nel grigio pomeriggio guidiamo per 70 km fino ad Esperance. Nella mia mente c’era la visione di un villaggio di frontiera, polveroso e assolato, con le insegne dei negozi che pendono sbilenche, scolorite dal vento e dalla sabbia; un paesino abitato da gente che guarda chi arriva in città con occhio sospettoso o semplicemente curioso, gente dai volti bruciati dal sole e con remoti occhi azzurri. Niente di tutto questo. Esperance non ha nulla del mito di frontiera, se non i chilometri che ci vogliono per raggiungerla. Un solido, efficiente villaggio all’australiana, con i soliti marchi del commercio e della ristorazione, grosse vetture parcheggiate ovunque e circolanti per le strade sicure ed efficienti, il porto operoso con navi cargo e locali che, senza l’indolenza propria di chi, essendo fuori dal tempo di tempo sembra averne sempre a sufficienza, ci respingevano in strada perché in pochi minuti sarebbe cominciato un evento privato. L’addetto del bottle shop mi dice che la posizione di Esperance è benedetta: mentre loro sarebbero andati a Perth per qualunque cosa potesse servire, divertimento o necessità, il suo essere così remota di fatto costringe chi non è motivato a spendere soldi qui a stare alla larga e a considerare la città come ultimo stop prima di affrontare il Nullarbor. Io e Chris compriamo due casse di James Boag in offerta a 90 dollari e ritorniamo in fattoria.

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Lo Zen e l’Arte della Manutenzione del Cesso – Prologo

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Tutto quello che so l’ho imparato a mie spese. Attento ai tuoi desideri, potrebbero avverarsi. La voce di Tim e gli accordi della sua chitarra fanno da contraltare al frinire delle cicale. Quando riceve la telefonata di sua moglie Jacqueline – la prima persona che avevo contattato per organizzare la mia esperienza in una organic farm – il trillo del telefono mi riporta alla realtà. Attorno alla fattoria di Tim ci sono chilometri e chilometri di nulla. Il centro abitato più vicino è Esperance, a un’ora e mezzo di macchina (nell’outback la distanza non si misura in spazio ma in tempo, oppure in cartoni di birra, mi viene detto). Adoro Tim, i suoi modi gentili e gli occhi azzurri che si stringono in fessure quando sorride. Tim ha davvero bisogno di una cosa ed io sono qui per aiutarlo: un cesso, o meglio, un cesso con lo sciacquone. La sua famiglia è in arrivo dall’Europa e tutto ciò che è disponibile per il soddisfacimento dei bisogni primari è una tazza adagiata sulla precaria sommità di un pozzo scavato a mano, protetta da tre paratie di alluminio e coperta da un panno che non lascia filtrare gli odori dalla fogna. Un sistema che funziona con i ritmi e i numeri della vita quotidiana, ma non quando valanghe di figli e nipoti si apprestano a trascorrere le vacanze natalizie in fattoria. Peccato che io non sappia fare nulla. Come posso essere di alcun aiuto quando a malapena posso appendere un quadro che non abbia pretese di essere rimirato troppo a lungo?

Nonostante la disperazione di questi giorni solitari, sento che c’è dentro di me una fiammella. La osservo con la coda dell’occhio mentre la mia intera visione è centrata sul grande cielo sopra di me. Incredibile cosa può fare un cielo stellato all’anima di un uomo. Questa piccola fiamma di speranza che la mia vita è degna di essere vissuta, senza rimpianti e senza auto denigrazioni, è molto debole e ha bisogno di essere continuamente alimentata. Non riesco a comunicare bene con Tim e per questo mi sono dato il compito di manovale. Abbiamo iniziato e quasi finito il cunicolo lungo il quale passerà il tubo di scarico. Un lavoro moderatamente duro, reso però infame dal miliardo di mosche e formiche che sovrapopolano il cortile. Quando vado in città devo ricordarmi di comprare uno di quei cappelli con zanzariera incorporata. Con quello e con la barba lunga, vestiti da lavoro, guanti e piccone in mano, pelle bruciata dal sole, sono irriconoscibile. La nostra idea di cesso sarà realtà in due settimane. Costruire una casa, dice Tim, non è molto dissimile: si comincia con un’idea, la si smonta in piccoli sistemi e si rendono questi sistemi autosufficienti e funzionanti, capaci di resistere alle eccezioni che per loro natura vi sono insite. Solo alla fine si collegano i risultati pratici di queste idee con il mezzo di volta in volta più opportuno: tubi, cemento, legno, mattoni o ceramica. Poco importa, quello che conta sono le idee.

Chris è il ragazzo canadese che come me fa volontariato – wwoofing – in questa fattoria di mucche e agnelli. È davvero in gamba. Ha 26 anni ma sembra avere tante risorse. Lo immagino perso nel deserto, senza mezzi e con la sua sola intelligenza, e lo vedo tornare indietro sano e salvo, con il sorriso sulle labbra. In questi primi giorni di lavoro ho fatto quel che lui diceva. La mia coscienza fortemente illuminata dalla splendente solitudine dell’outback continua a dirmi che sono un incapace. È chiaro che non posso andare avanti così, devo prendere delle contromisure, quindi tanto vale ammetterlo una volta per tutte: non so fare nulla. Se mi perdessi nel deserto probabilmente avrei appena le energie per scavarmi una fossa. Non so nulla di tubature e di falegnameria, e va da sé che non so costruire un cesso. Mi verrebbe da dire che sono un fallimento, se non fosse che il vero fallimento è la paura di provarci. Di sera ho provato a fare la pizza, o meglio a dotare di una forma genuina l’ammasso di pasta che ci è stato comodamente restituito dal robot tuttofare Thermomix©. La giornata finisce improvvisamente, mentre penso che non sia possibile che in due settimane il nostro cesso sarà completo, e soprattutto non riesco a quantificare l’utilità del mio apporto.

continua


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