Viaggiare è immorale, diceva Weininger viaggiando; è crudele, incalza Canetti. Immorale è la vanità della fuga, ben nota a Orazio che ammoniva a non cercare di eludere i dolori e gli affanni spronando il cavallo, perché la nera angoscia, dice il suo verso, siede in groppa dietro il cavaliere che spera di farle perdere le proprie tracce. L’io forte, secondo il filosofo viennese presto stroncato dalla convivenza con l’assoluto, deve restare a casa, guardare in faccia angoscia e disperazione senza volerne essere distratto o stordito, non distogliere lo sguardo dalla realtà e dal combattimento; la metafisica è residente, non cerca evasioni né vacanze. Forse talora l’io resta a casa e a viaggiare è un suo sembiante, un simulacro simile a quello di Elena che, secondo una delle versioni del mito, aveva seguito Paride a Troia, mentre la vera Elena sarebbe rimasta, per tutti i lunghi anni della guerra, altrove, in Egitto.
Weininger denunciava nel viaggio la tentazione dell’irresponsabilità; chi viaggia è spettatore, non è coinvolto a fondo nella realtà che attraversa, non è colpevole delle brutture, delle infamie e delle tragedie del paese in cui s’inoltra. Non ha fatto lui quelle leggi inique e non ha da rimproverarsi di non averle combattute; se il tetto di una notte crolla ed egli non ha proprio la disgrazie di restare sotto le macerie, non ha altro da fare che prendere la sua valigia e spostarsi un po’ più in là. In viaggio si sta bene perché, a parte qualche sciagura, terremoto o disastro aereo, non può veramente accaderci nulla; non si mette in gioco la propria vita.
Il viaggio è anche una benevola noia, una protettrice insignificanza. L’avventura più rischiosa, difficile e seducente si svolge a casa; è là che si gioca la vita, la capacità o l’incapacità di amare e costruire, di avere e dare felicità, di crescere con coraggio o rattrappirsi nella paura; è là che ci si mette a rischio. La casa non è un idillio; è lo spazio dell’esistenza concreta e dunque esposta al conflitto, al malinteso, all’errore, alla sopraffazione e all’aridità, al naufragio. Per questo essa è il luogo centrale della vita, col suo bene il suo male; il luogo della passione più forte, talora devastante – per la compagna e il compagno dei propri giorni, per i figli – e la passione coinvolge senza riguardi. Andare in giro per il mondo vuol dire pure riposarsi dall’intensità domestica, adagiarsi in piacevoli pause pantofolaie, lasciarsi andare passivamente – immoralmente, secondo Weininger – al fluire delle cose.
C’è un’altra immoralità del viaggio, la chiusura dinanzi alla diversità del mondo. Il viaggiatore mitteleuropeo è facilmente un Ulisse in veste da camera, come ha scritto Giorgio Bergamini, uno che vorrebbe navigare fra una poltrona e una biblioteca, sul blu oceanico dell’atlante piuttosto che su quello delle onde; uno per il quale l’infinito è il segno matematico dell’infinito. Chi viaggia sulla carta si disabitua impercettibilmente alla vita e rivolge le proprie passioni al grafico della vita, alle curve statistiche dei suoi fenomeni; diviene un uomo senza qualità per il quale, scrive Musil, la verdura in scatola diventa il vero senso della verdura fresca.
Anche quando viaggia nel mondo, il viaggiatore conserva tale tendenza ad abbottonarsi bene il pastrano e ad alzare il bavero, quasi a porre una difesa fra sé e le cose. Per fortuna pure i viaggiatori danubiani amano il mare e forse, come quelli del mio Danubio, attraversano le grandi pianure della Mitteleuropa sotto cieli pesanti soprattutto per raggiungere il mare. È sulle rive del mare “inesplicabile”, come lo chiamava Camoes, che s’incontra il respiro largo della vita, che apre alle grandi domande sul destino e al senso del bene e del male; il mare pone a confronto con l’ambiguità, invita a sfidarla – sul mare immortale, scrive Conrad, si conquista il perdono delle proprie anime peccatrici. Al mare ci si spoglia, ci si toglie le soffocanti difese e ci si apre a ciò che sta davanti. Anche questa è la salvezza del viaggiatore, il quale pure sul lastricato delle città o sulle montagne si sente sulla traballante tolda una nave sbattuta dai marosi, arca precaria o salvifica.
Crudeltà del viaggio, ammonisce Canetti: il viaggiatore guarda al mondo con curiosità ed è in qualche modo propenso ad accettare ciò che vede, anche il male e l’ingiustizia, a conoscerli e a capirli piuttosto che a combatterli e a respingerli. Il viaggio nei paesi totalitari, ad esempio, è sempre un po’ colpevole, una complicità o almeno neutralità di fatto nei confronti delle violenze e delle infamie celate dietro i villaggi Potemkin che si attraversano e dove si trova ospitalità. Eppure, a poco a poco, il viaggiatore scopre, è costretto a scoprire la fraternità e il comune destino del mondo, a sentire che il mondo intero è la sua casa e che solo questo sentimento rende vero il suo amore per la casa lasciata al suo paese, che altrimenti sarebbe un orrido e regressivo feticismo.
Come per il vagabondo buonannulla di Eichendorff, amore delle lontananze e amore del focolare coincidono, perché in quel focolare si ama pure il vasto mondo sconosciuto e in quest’ultimo si coglie, anche nelle forme più diverse, l’intimità del focolare. Dante diceva che bevendo l’acqua dell’Arno aveva imparato ad amare fortemente Firenze, ma che la nostra patria è il mondo come per i pesci il mare – ognuna delle due acque, da sola, è insufficiente e inquinata. Viaggiare insegna lo spaesamento, a sentirsi sempre stranieri nella vita, anche a casa propria, ma essere straniero fra stranieri è forse l’unico modo di essere veramente fratelli. Per questo la meta del viaggio sono gli uomini: non si va in Spagna o in Germania ma fra gli spagnoli o fra i tedeschi. “Legga letteratura di viaggio” diceva a un teologo Kant, che pure non voleva muoversi da Konigsberg.
Claudio Magris – L’infinito viaggiare