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Il viaggiatore immorale

Viaggiare è immorale, diceva Weininger viaggiando; è crudele, incalza Canetti. Immorale è la vanità della fuga, ben nota a Orazio che ammoniva a non cercare di eludere i dolori e gli affanni spronando il cavallo, perché la nera angoscia, dice il suo verso, siede in groppa dietro il cavaliere che spera di farle perdere le proprie tracce. L’io forte, secondo il filosofo viennese presto stroncato dalla convivenza con l’assoluto, deve restare a casa, guardare in faccia angoscia e disperazione senza volerne essere distratto o stordito, non distogliere lo sguardo dalla realtà e dal combattimento; la metafisica è residente, non cerca evasioni né vacanze. Forse talora l’io resta a casa e a viaggiare è un suo sembiante, un simulacro simile a quello di Elena che, secondo una delle versioni del mito, aveva seguito Paride a Troia, mentre la vera Elena sarebbe rimasta, per tutti i lunghi anni della guerra, altrove, in Egitto.

Weininger denunciava nel viaggio la tentazione dell’irresponsabilità; chi viaggia è spettatore, non è coinvolto a fondo nella realtà che attraversa, non è colpevole delle brutture, delle infamie e delle tragedie del paese in cui s’inoltra. Non ha fatto lui quelle leggi inique e non ha da rimproverarsi di non averle combattute; se il tetto di una notte crolla ed egli non ha proprio la disgrazie di restare sotto le macerie, non ha altro da fare che prendere la sua valigia e spostarsi un po’ più in là. In viaggio si sta bene perché, a parte qualche sciagura, terremoto o disastro aereo, non può veramente accaderci nulla; non si mette in gioco la propria vita.

Il viaggio è anche una benevola noia, una protettrice insignificanza. L’avventura più rischiosa, difficile e seducente si svolge a casa; è là che si gioca la vita, la capacità o l’incapacità di amare e costruire, di avere e dare felicità, di crescere con coraggio o rattrappirsi nella paura; è là che ci si mette a rischio. La casa non è un idillio; è lo spazio dell’esistenza concreta e dunque esposta al conflitto, al malinteso, all’errore, alla sopraffazione e all’aridità, al naufragio. Per questo essa è il luogo centrale della vita, col suo bene il suo male; il luogo della passione più forte, talora devastante – per la compagna e il compagno dei propri giorni, per i figli – e la passione coinvolge senza riguardi. Andare in giro per il mondo vuol dire pure riposarsi dall’intensità domestica, adagiarsi in piacevoli pause pantofolaie, lasciarsi andare passivamente – immoralmente, secondo Weininger – al fluire delle cose.

C’è un’altra immoralità del viaggio, la chiusura dinanzi alla diversità del mondo. Il viaggiatore mitteleuropeo è facilmente un Ulisse in veste da camera, come ha scritto Giorgio Bergamini, uno che vorrebbe navigare fra una poltrona e una biblioteca, sul blu oceanico dell’atlante piuttosto che su quello delle onde; uno per il quale l’infinito è il segno matematico dell’infinito. Chi viaggia sulla carta si disabitua impercettibilmente alla vita e rivolge le proprie passioni al grafico della vita, alle curve statistiche dei suoi fenomeni; diviene un uomo senza qualità per il quale, scrive Musil, la verdura in scatola diventa il vero senso della verdura fresca.

Anche quando viaggia nel mondo, il viaggiatore conserva tale tendenza ad abbottonarsi bene il pastrano e ad alzare il bavero, quasi a porre una difesa fra sé e le cose. Per fortuna pure i viaggiatori danubiani amano il mare e forse, come quelli del mio Danubio, attraversano le grandi pianure della Mitteleuropa sotto cieli pesanti soprattutto per raggiungere il mare. È sulle rive del mare “inesplicabile”, come lo chiamava Camoes, che s’incontra il respiro largo della vita, che apre alle grandi domande sul destino e al senso del bene e del male; il mare pone a confronto con l’ambiguità, invita a sfidarla – sul mare immortale, scrive Conrad, si conquista il perdono delle proprie anime peccatrici. Al mare ci si spoglia, ci si toglie le soffocanti difese e ci si apre a ciò che sta davanti. Anche questa è la salvezza del viaggiatore, il quale pure sul lastricato delle città o sulle montagne si sente sulla traballante tolda una nave sbattuta dai marosi, arca precaria o salvifica.

Crudeltà del viaggio, ammonisce Canetti: il viaggiatore guarda al mondo con curiosità ed è in qualche modo propenso ad accettare ciò che vede, anche il male e l’ingiustizia, a conoscerli e a capirli piuttosto che a combatterli e a respingerli. Il viaggio nei paesi totalitari, ad esempio, è sempre un po’ colpevole, una complicità o almeno neutralità di fatto nei confronti delle violenze e delle infamie celate dietro i villaggi Potemkin che si attraversano e dove si trova ospitalità. Eppure, a poco a poco, il viaggiatore scopre, è costretto a scoprire la fraternità e il comune destino del mondo, a sentire che il mondo intero è la sua casa e che solo questo sentimento rende vero il suo amore per la casa lasciata al suo paese, che altrimenti sarebbe un orrido e regressivo feticismo.

Come per il vagabondo buonannulla di Eichendorff, amore delle lontananze e amore del focolare coincidono, perché in quel focolare si ama pure il vasto mondo sconosciuto e in quest’ultimo si coglie, anche nelle forme più diverse, l’intimità del focolare. Dante diceva che bevendo l’acqua dell’Arno aveva imparato ad amare fortemente Firenze, ma che la nostra patria è il mondo come per i pesci il mare – ognuna delle due acque, da sola, è insufficiente e inquinata. Viaggiare insegna lo spaesamento, a sentirsi sempre stranieri nella vita, anche a casa propria, ma essere straniero fra stranieri è forse l’unico modo di essere veramente fratelli. Per questo la meta del viaggio sono gli uomini: non si va in Spagna o in Germania ma fra gli spagnoli o fra i tedeschi. “Legga letteratura di viaggio” diceva a un teologo Kant, che pure non voleva muoversi da Konigsberg.

Claudio Magris – L’infinito viaggiare

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Brevi incontri con donne straordinarie

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Quando Julie ha detto a Rosemary di essere nata e cresciuta a Norseman, appena sopra la piana del Nullarbor, la mia ospite ha avuto un sussulto. “Quella sì che è terra selvaggia”, ha detto stringendosi nelle spalle nel suo accento inglese posh che cinquant’anni di Australia non sono serviti a imbastardire. Rosemary e Julie si sono appena conosciute ma, come entrambe concordano, nulla avviene per caso. Nella sua casa piena di luce, e che pure lei definisce boring, Rosemary sembra aver bisogno di aiuto nel ripulire il suo piccolo bosco privato da tutti i rami e le foglie secche accumulatisi mentre era in viaggio. Julie fa molte cose: è cresciuta in terra selvaggia e abituata a sparare al proprio cibo. Ella chiama mate tutti gli animali che incontra per la sua strada, si prende cura di loro se sono feriti “o anche tristi”, ma non esitava a puntare il fucile contro l’abbondante selvaggina della vasta distesa di terra sopra il deserto del nulla. In questo periodo della sua vita Julie sopravvive facendo le pulizie. “Non ho bisogno di molto. Sono anzi felice di possedere poche cose. Le cose finiscono con il possedere te, e mi dà soddisfazione che quel poco che possiedo è di seconda mano ma perfettamente funzionante. Da quando decisi di andar via da Esperance molte cose sono successe, e ho persino vissuto per un periodo nella mia macchina. Sai come l’ho ottenuta, Alex? Chiedendola. Non sai quante cose ottieni se chiedi. Costava mille dollari, la metà dei quali ho ripagato lavorando. Per me non esiste lavoro abbastanza duro”.

Le due nuove amiche si perdono in lunghe conversazioni. Rosemary è un’artista. In ogni stanza c’è una libreria straripante, oggetti collezionati durante i suoi viaggi e i suoi oli su tela. Mi mostra la sua stanza dei giochi. “Ho dovuto aspettare una vita per averne una, ma ora finalmente mi diverto”. Quando mi fa accomodare nella mia stanza mi mostra i libri che ha messo sul tavolo. “Ho pensato che potrebbero interessarti”. Da quando avevo scritto a Rosemary di essere interessato alla cultura Aborigena, non solo lei si è prodigata ad ospitarmi, disponibile a condividere la sua esperienza di social worker in remote comunità del Western Australia, ma durante la nostra prima cena insieme ha fatto sì che si unisse a noi Richard, consigliere qui ad Albany. Richard ha portato un vino della Barossa Valley, e la sua voce pastosa durante il brindisi alla nostra conoscenza mi suggerisce che non è il primo bicchiere della giornata. E poi c’è Julie. Noi quattro provenienti dagli angoli più remoti della terra riuniti per una cena illuminata da poche candele, per parlare del nostro interesse comune. Julie rifiuta di toccare i nostri bicchieri, e dopo aver studiato l’agnello che era servito nel suo piatto per buoni due minuti, comincia a mangiarlo con l’aria di chi ha appena avuto una lunga battaglia interiore.

Il giorno dopo ci mettiamo in macchina. “Ti va una birra”? Julie sembra non badare troppo alle rigide regole australiane che, quando si tratta di alcol e guida, sono molto severe. Ma probabilmente qui, in queste lunghe strade semiasfaltate che portano da un piccolo centro all’altro, troppo preciso non lo è nessuno. Ci fermiamo ad un bottle shop e facciamo il pieno di Becks. Apro la sua con il mio accendino, prima che lei faccia saltare il tappo per aria – ne sono sicuro – con i denti. Sul cruscotto dell’auto sono riposti ordinatamente una piccola radio, un binocolo, una spazzola, un pacchetto con delle salsicce che di tanto in tanto spezzetta e butta indietro dove un barbuto cagnolino fa piazza pulita. Mi porta a Frenchmen Bay, guidando per il circuito della baia di Albany. Guidiamo per il porto, una volta il più importante di tutto il WA, prima che venisse costruito quello di Fremantle. Mi pare di essere in un loop ma non per la conformazione della baia, quanto piuttosto per le storie che si susseguono e che trovano un ulteriore senso successivamente in questo vasto e remoto stato. Da qui partirono le truppe Anzac per Gallipoli, Turchia, e la comunità ricorda i suoi caduti con particolare commozione. “La vedi quella lassù? È la prigione di Albany. Lì c’è mio figlio, è per lui che sono venuta qui, per stargli vicino. Una volta andavo a trovarlo due volte a settimana, ma da quando ho saputo che lo spogliavano nudo prima e dopo ogni mia visita, mi limito a telefonarlo. Così, per tenergli su il morale. Potrei anche tornare ad Esperance ma troppe brutte cose sono successe laggiù, e credo che la mia presenza qui significhi molto per lui”.

Prima di riaccompagnarmi da Rosemary decide di passare per casa sua. Il posto sembra essere stato occupato abusivamente nel giro di una notte. Mi mostra i suoi strumenti musicali, i suoi disegni. Sono incuriosito da uno, in particolare. The Italian chef, si chiamava. Raffigurava un pescatore dai tratti mediterranei in piedi sulla sua barca, in mezzo al mare, aspettando di tirar su la rete o scrutando la rotta. Julie doveva aver capito il lampo nei miei occhi, perché un altro si era acceso nei suoi. “Puoi prenderlo, l’ho fatto per te.” “Ma se ci siamo appena conosciuti” faccio io, e lei mi risponde che evidentemente aveva avuto quell’ispirazione in previsione del nostro incontro, e che la cosa più giusta era che mi prendessi il disegno. Il ragionamento mi parve a suo modo logico.

Ad Esperance ci sono rimasto tre mesi. Julie aveva detto che quando scopri il suo mare non puoi fare a meno di esserne hooked. Riguardo le fotografie di quei giorni e mi viene in mente che questa è una bella risposta a chi mi chiede dove sono stato, in quasi un anno. Vedi – d’ora in poi risponderò – non sono tanto uno da sightseeing. Ho fatto i miei viaggi dove un giorno dormivo in un posto e il giorno successivo chissà, ma ora sono un po’ stanco. Non di viaggiare, ma dell’evanescenza di esperienze forti che non hanno il tempo di sedimentarsi. Ora viaggio così: mi stabilisco in un luogo per qualche tempo, cerco di conoscere i locali, ascolto le loro storie e con esse mi pare che il mio viaggio non si limiti lì dove termina il mio sguardo.

Julie è stata la prima di una serie di donne straordinarie che ho conosciuto qui. Scriveva Chatwin nel suo The songlines: “One commonly held delusion is that men are the wanderers and women the guardians of hearth and home. This can, of course, be so. But women, above all, are the guardians of continuity: if the hearth moves, they move with it. In Australia, women are the driving force behind the return to the old ways of life. As one woman said to a friend of mine, women are ones for country.” Mi accorgo che tra le foto che ho di quei giorni, in soltanto una appare Julie, ed è di spalle. Mi doveva accompagnare alla stazione da dove avrei preso il bus per Esperance, e stavamo fumando l’ultima sigaretta sul pontile di Albany. A un tratto, la piccola scialuppa di un pescatore dalla barba bianca appare all’orizzonte. Julie cammina lentamente fino alla fine del pontile, e da lì aspetta che gli sbuffi del motore portino la barca ad attraccare. Julie rimane ferma tutto il tempo mentre il vento le scuote i capelli, e il pescatore ride di gusto. In macchina poi parlammo di tutt’altro, e ricordo che, una volta nel bus, mi piacque pensare che la bruschezza con la quale mi aveva augurato l’addio non era dovuta ai modi di chi è cresciuto in terra selvaggia, bensì all’impazienza di tornare su quel pontile dove ad attenderla c’era, chissà, un capitolo felice della sua vita.

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L’unione del mondo

La nostra terra, il nostro pianeta è una congerie di decine di migliaia di posti, ciascuno con il proprio nome (per giunta scritto o pronunciato diversamente nelle varie lingue, il che ne aumenta il numero). Sono una quantità talmente sterminata che, viaggiando, uno non riesce a tenerne a mente neanche una piccola parte. Spesso la nostra memoria è talmente satura di nomi di località, regioni e paesi, che non riusciamo più ad associarli a un’immagine, a una veduta, a un paesaggio, a un episodio o a un volto. Tutto si mescola, si accavalla, sbiadisce. L’oasi Sodori la mettiamo in Libia invece che in Sudan; la cittadina di Tefe in Laos invece che in Brasile; il piccolo porto di pescatori Galle in Portogallo, invece che dove realmente si trova, vale a dire in Sri Lanka. L’unione del mondo, così difficile da raggiungere nella realtà pratica, si realizza nei nostri cervelli, nei suoi strati di memoria perduta e confusa.

Ryszard Kapuscinski, Ebano (traduzione dal Polacco di Vera Verdiani)

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The songlines

I had a presentiment that the “travelling” phase of my life might be passing. I felt, before the malaise of settlement crept over me, that I should reopen those notebooks. I should set down on paper a resumé of the ideas, quotations and encounters which had amused and obsessed me; and which I hoped would shed light on what is, for me, the question of questions: the nature of human restlessness.

Pascal, in one of his gloomier pensées, gave it as his opinion that all our miseries stemmed from a single cause: our inability to remain quietly in a room. Why, he asked, must a man with sufficient to live on fell drawn to divert himself on long sea voyages? To dwell in another town? To go off in search of a peppercorn? Or go off to war and break skulls?

Later, on further reflection, having discovered the cause of our misfortunes, he wished to understand the reason for them, he found one very good reason: namely, the natural unhappiness of our weak mortal condition; so unhappy that when we gave to it all our attention, nothing could console us.

One thing alone could alleviate our despair, and that was “distraction” (divertissement): yet this was the worst of our misfortunes, for in distraction we were prevented from thinking about ourselves and were gradually brought to ruin. Could it be, I wondered, that our need for distraction, our mania for the new, was, in essence, an instinctive migratory urge akin to that of birds in autumn?

All the Great Teachers have preached that Man, originally, was a “wanderer in the scorching and barren wilderness of this world” – the words are those of Dostoevsky’s Grand Inquisitor – and that to rediscover his humanity, he must slough off attachments and take to the road.

My two most recent notebooks were crammed with jottings taken in South Africa, where I had examined, at first hand, certain evidence on the origin of our species. What I learned there – together with what I now knew about the Songlines – seemed to confirm the conjecture I had toyed with for so long: that Natural Selection has designed us – from the structure of our brain-cells to the structure of our big toe – for a career of seasonal journeys on foot through a blistering land of thorn scrub or desert.

If this were so; if the desert were “home”; if our instincts were forged in the desert; to survive the rigours of the desert – then it is easier to understand why greener pastures pall on us; why possessions exhaust us, and why Pascal’s imaginary man found his comfortable lodgings a prison.

Bruce Chatwin, The Songlines.

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The Kingdom by the Sea

It was early in my trip but already I was curious about English people in their cars staring seawards, and elderly people in deck chairs all over the south coast watching waves, and now Mr Bowles, the old railwayman, saying, “I like this…the open sea.” What was going on here? There was an answer in Elias Canetti’s Crowds and Power, an unusual and brilliant – come critics have said eccentric – analysis of the world of men in terms of crowds. There are crowd symbols in nature, Canetti says – fire is one, and rain is another, and the sea is a distinct one. “The sea is multiple, it moves, and it is dense and cohesive” – like a crowd – “its multiplicity lies in its waves” – the waves are like men. The sea is strong, it has a voice, it is constant, it never sleeps, “it can soothe or threaten or break out in storms. But it is always there”. Its mystery lies in what it covers: “Its sublimity is enhanced by the thought of what it contains, the multitudes of plants and animals hidden within it.” It is universal and all-embracing, “it is an image of stilled humanity; all life flows into it and it contains all life.”

Later in his book, when he is dealing with nations, Canetti describes the crowd symbol of the English. It is the sea: all the triumphs and disasters of English history are bound up with the sea, and the sea has offered the Englishman transformation and danger. “His life at home is complementary to life at sea: security and monotony are its essential characteristics.” “The Englishman sees himself as a captain,” Canetti says: this is how his individualism relates to the sea.

So I came to see Mr. Bowles, and all those old south coast folk staring seawards, as sad captains fixing their attention upon the waves. The sea murmured back at them. The sea was a solace. It contained all life, of course, but it was also the way out of England – and it was the way to the grave, seawards, out there, offshore. The sea had the voice and embrace of a crowd,, but for this peculiar nation it was not only a comfort, representing vigour and strength. It was an end, too. Those people were looking in the direction of death.

(Paul Theroux, The Kingdom by the Sea)

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Del viaggio e della pace interiore

Ci svegliammo presto e noleggiammo un’auto per andare a Epidauro. La giornata cominciò in una pace sublime. Era la mia prima vera occhiata al Peloponneso. E non fu un’occhiata, ma la visione di un tacito mondo placato quale l’uomo erediterà un giorno, quando cesserà di dedicarsi al furto e all’assassinio. Mi chiedo come mai nessun pittore ci abbia dato la magia di questo paesaggio idilliaco. E’ troppo sereno, troppo idilliaco? La luce è troppo eterea per essere catturata dal pennello? Questo posso dire, e forse scoraggerà l’artista soverchiamente entusiasta: qui non esiste bruttezza, di linea, di forma, colore, sembianza o sentimento. E’ perfezione pura, come nella musica di Mozart. E mi azzardo a dire che c’è più Mozart qui che in qualsiasi altra parte del mondo. La strada per Epidauro è come la strada per la creazione. Si smette di cercare. Si tace, zittiti dal silenzio di misteriosi inizi. Se si riuscisse a parlare sarebbe in melodia. Qui non c’è niente da prendere, da tesaurizzare, da accaparrare: c’è solo un crollare dei muri che rinserrano lo spirito. Il paesaggio non svanisce, si insedia nei luoghi aperti del cuore; fa ressa, si accumula, spossessa. Non attraversi qualcosa – chiamatela Natura, se volete – ma partecipi a una disfatta, a una disfatta delle forze di avidità, cattiveria, invidia, egoismo, rancore, intolleranza, orgoglio, arroganza, astuzia, doppiezza e via dicendo.

E’ il mattino del primo giorno della gran pace, la pace del cuore, che viene con la resa. Non sapevo cosa significasse pace finché non arrivai a Epidauro. Come tutti avevo sempre usato questa parola senza capire che usavo un simulacro. La pace non è il contrario della guerra, così come la morte non è il contrario della vita. La povertà del linguaggio, vale a dire la povertà dell’immaginazione dell’uomo o la povertà della sua vita interiore, ha creato un’ambivalenza assolutamente falsa. Parlo beninteso della pace che trascende l’intelletto. Non ve n’è d’altro genere. La pace che i più di noi conoscono è soltanto una cessazione di ostilità, una tregua, in interregno, una bonaccia, un rifiato, ed è qualcosa di negativo. La pace del cuore è positiva e invincibile, non impone condizioni, non esige protezione. E’ e basta. Se è una vittoria è una vittoria di tipo particolare perché si basa interamente sulla resa, una resa volontaria, naturalmente.

L’uomo ha bisogno di pace per vivere. Sconfiggere il nostro vicino non dà pace, così come curare il cancro non reca salute. L’uomo non comincia a vivere grazie al trionfo sul nemico né comincia ad acquistare salute grazie a cure interminabili. La gioia del vivere viene grazie alla pace, che non è statica ma dinamica. Nessuno può dire di sapere cos’è davvero la gioia finché non ha fatto esperienza della pace. E senza gioia non c’è vita, anche se hai una dozzina di automobili, sei maggiordomi, un castello, una cappella privata e un rifugio a prova di bombe. Le nostre malattie sono i nostri attaccamenti, si tratti di abitudini, ideologie, ideali, principi, possedimenti, fobie, dèi, culti, religioni, quello che vi pare. Un buon salario può essere una malattia non meno grave di un cattivo salario. Il tempo libero può essere una malattia non meno grave del lavoro. Tutto ciò a cui ci aggrappiamo, anche se è speranza o fede, può essere la malattia che ci uccide. La resa è assoluta: se ti aggrappi anche a un bruscolo nutri il germe che ti divorerà. Quanto all’aggrapparsi a Dio, Dio ci ha abbandonato da un pezzo affinché comprendessimo la gioia di raggiungere la condizione divina grazie ai nostri sforzi.

Tutto questo piagnucolio che si svolge nel buio, questa insistente, pietosa invocazione di pace che intensifica col crescere della sofferenza e dell’infelicità: dove trovarla? La pace, la gente immagina che sia qualcosa da immagazzinare come grano o granturco? E’ una cosa su cui ci si può avventare e divorarla, come lupi che si azzuffano per una carcassa? Sento persone parlare di pace e le loro facce sono annuvolate dall’ira e dall’odio, dal disprezzo e dallo sdegno, dall’orgoglio e dall’arroganza. C’è gente che vuole combattere per realizzare la pace – sono le anime più illuse. Non ci sarà pace finché la voglia di uccidere non sia eliminata dal cuore e dalla mente. L’omicidio è il vertice dell’ampia piramide alla cui base c’è l’io. Ciò che si erge dovrà cadere. Tutto ciò per cui l’uomo ha combattuto dovrà essere abbandonato prima che egli cominci a vivere da uomo. Finora egli è stato una bestia malata e anche la sua divinità puzza. E’ padrone di molti mondi e schiavo nel suo. Quello che regge il mondo è il cuore, non il cervello. In ogni sfera le nostre conquiste recano solo morte. Abbiamo voltato la schiena all’unica sfera dove sta la libertà. A Epidauro, nella quiete, nella grande pace che scese su di me, udii battere il cuore del mondo. So qual è il rimedio: è rinunciare, abbandonare, arrendersi, così che i nostri cuori possano battere all’unisono col grande cuore del mondo.

Le moltitudini che compirono il lungo cammino per Epidauro da ogni angolo del mondo antico erano, credo, già guarite prima di arrivare qui. Seduto nel silenzio strano del teatro pensai al lungo e tortuoso percorso con cui ero giunto alfine a questo risanante centro di pace. Nessuno avrebbe potuto scegliere un viaggio più circonlocutorio del mio. Per trent’anni avevo vagato, come in un labirinto. Avevo gustato ogni gioia, ogni disperazione, ma non avevo mai conosciuto cosa significasse pace. Lungo il cammino avevo vinto a uno a uno tutti i miei nemici, ma il nemico maggiore non l’avevo nemmeno identificato –  me stesso. Entrando nella conca silenziosa, ora bagnata da una luce marmorea, venni al punto, esattamente nel centro, dove il più tenue bisbiglio s’innalza come un uccello lieto e svanisce oltre la spalla della bassa collina, al pari della luce d’un giorno chiaro che si dilegua davanti al nero vellutato della notte. Non c’era niente da conquistare: davanti a me si stendeva un oceano di pace. Essere liberi, come io seppi di essere in quel momento, significa capire che ogni conquista è vana, anche la conquista di sé, atto supremo di egotismo. Essere gioiosi significa portare l’io alla sua vetta suprema e abbandonarlo trionfalmente. Conoscere la pace è totale: è il momento dopo, quando la resa è completa, quando non c’è più nemmeno coscienza della resa. La pace è al centro e quando viene raggiunta la voce sgorga in lode e benedizione.

Epidauro è soltanto un simbolo di luogo: il luogo vero è nel cuore, nel cuore di ognuno, pur che egli si fermi a cercarlo. Ogni scoperta è misteriosa in quanto rivela cose tanto inaspettatamente prossime, tanto vicine, note da lungo tempo e tanto intimamente. Il saggio non ha bisogno di mettersi in viaggio: è lo sciocco che cerca il vaso d’oro ai piedi dell’arcobaleno. Ma i due sono sempre destinati a incontrarsi a ad unirsi. Si incontrano nel cuore del monde, che è l’inizio e la fine del cammino. Si incontrano nella realizzazione e si uniscono nella trascendenza dei loro ruoli. Il mondo è insieme giovane e vecchio: come l’individuo, si rinnova nella morte e invecchia attraverso nascite infinite. In ogni fase c’è la possibilità del compimento. La pace sta in qualsiasi punto lungo la linea. E’ un continuo, e un continuo indimostrabile con demarcazioni così come una linea è indimostrabile con una fila di punti. Fare una linea richiede una totalità dell’essere, della volontà e dell’immaginazione. Su cosa costituisce una linea, che è un esercizio metafisico, si può speculare in eterno. Ma anche un idiota può tracciare una linea, e nel farlo egli è pari al professore per il quale l’essenza di una linea è un incomprensibile mistero.

La padronanza di grandi cose viene col fare cose da nulla; per l’anima timida un viaggetto è cosa formidabile come una gran viaggio per l’anima grande. Viaggiare è un’impresa interiore, e i viaggi più arrischiati, non occorre dirlo, si fanno senza muoversi dal posto. Ma il senso del viaggio può inaridirsi e morire. Ci sono avventurieri che penetrano nelle parti più remote della terra, trascinando a una sterile meta un cadavere animato. La terra pullula di spiriti avventurosi che la popolano di morte: sono le anime che bramose di conquista riempiono di contese e litigi i corridoi esterni dello spazio. Ciò che dà una tinta fantasmatica alla vita è questo sciagurato dramma d’ombra tra lemuri e spettri. Il panico, la confusione che afferra l’anima del viandante è il riverbero del pandemonio creato dai persi e dannati.

Henry Miller, Il colosso di Marussi – Ed. Adelphi, 2000, pp. 79 – 84 (((ma se ve lo leggete tutto non fate un errore)))

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