Archivi del mese: settembre 2012

Extraviados

Gli extraviados sono i persi in giro per il mondo,quelli colti dalla febbre di vedere e toccare con mano i pezzi di umanità che li circondano. Sono quelli che si trovano in capo al mondo per scelta, perché fare quella scelta è una necessità. Sono solitari che amano le persone, le amano a tal punto che poi sono costrette ad abbandonarle. Per loro non è importante possedere oggetti ed eppure, anche senza di questi, hanno una loro propria identità. “La mia patria è il mondo intero”, direbbero, e conoscendoli si capirebbe che fanno sul serio. Non si preoccupano del futuro perché troppo impegnati a vivere il presente. Hanno anche un buon rapporto con il passato perché non lo rinnegano. Sono quelli che non spariscono ma si confondono tra la gente, e se non li si trova è perché li si cerca nel posto sbagliato. Degli extraviados la società è solita preoccuparsi. Per loro non c’è un posto preciso, non rientrano in nessuna categoria o forse rientrano in troppe. Loro talvolta ci pensano, si fanno prendere dalla nostalgia e dal senso di colpa, se sia giusto essere nostalgici di un luogo che si abbandona per scelta, di un ruolo che non hanno mai davvero ricoperto, e per un attimo viene loro in mente di tornare, eleggere un domicilio, pagare le bollette e comprare un nuovo televisore. Ma poi si affacciano dal finestrino e non ci pensano più.

Nella versione aggiornata della pagina about un piccolo retroscena su come questa parola è finita nel mio immaginario.

 

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I Cinque Uomini

L’uomo che si dirige verso l’ingresso del grattacielo è l’Uomo del Millennio. È indaffarato, parla al telefonino e ha una ventiquattrore nella quale è contenuto tutto il necessario per affrontare una tipica giornata lavorativa nel nuovo millennio. Arriva direttamente dall’aeroporto, non vive a Perth, almeno non stabilmente. Questa bisogna dirla in inglese: fa fly in fly out. Qui li chiamano Fifo. Lavorare nell’industria mineraria è faticoso, anche se sei ingegnere. Sei lontano dalla tua famiglia o sei costretto a trapiantarla in quella remota località a mille chilometri da casa tua, un posto che ha il nome di uno sconosciuto cercatore d’oro d’inizio Novecento, e allora prendi un aereo e torni in città un paio di volte al mese, per pochi giorni, secondo il tuo roster. Sembra sfuggente, non deve proprio aver tempo per badare a me, uomo comune. Ma non dimentichiamo che l’Uomo in questione è Australiano: crede che tutti noi siamo uguali e che bisogna trattare tutti amichevolmente. Dalla seconda fotografia si nota come in realtà, anche se slanciato con il corpo verso il grattacielo e impegnato in una conversazione, egli ci rivolge uno sguardo di intesa. Se potesse mi direbbe hi, mate.

Il secondo uomo lo segue a stretto giro, e da entrambe le fotografie è possibile scorgergli un sorriso. Come se fosse scolpito. Egli è l’Uomo dell’Immigrazione Europea, giunto dopo la seconda guerra mondiale, a metà del secolo scorso, quando l’Europa si scrollava da dosso le brutture della guerra e l’America e l’URSS mandavano uomini sulla Luna. È vestito in maniera elegante, forse non troppo ricercata, con quel cappello dalle larghe tese che ora viene indossato solo da countrymen nell’outback. O da turisti ed eccentrici miliardari. Appare fiducioso: sa che la giornata che lo attende sarà dura ma è consapevole che sarà ricompensato. È giunto nella terra promessa, opportunità per sé e per la sua famiglia. La traversata di trenta giorni su quell’orribile nave non è stata vana.

Il terzo uomo, forse, è quello che ha dato i natali a questa parte di Australia così come è conosciuta oggi. Senza Colui Che Scoprì L’Oro, infatti, Perth e l’Australia Occidentale sarebbero abbandonate a loro stesse, un terzo mondo nel bel mezzo del nulla. Ma non divaghiamo. Da entrambe le foto emergono pochi dettagli. Sappiamo che viene direttamente da quegli anni impigliati tra i due secoli scorsi, ma non si sa se è uno di quelli impazziti nella ricerca dell’oro oppure uno di quelli che ha fatto abbastanza fortuna da avere una città sperduta intitolata a suo nome. Forse è membro direttivo del primo sindacato che allora andava formandosi in Australia. Ve lo immaginate mentre pronuncia God save the Queen con il pugno sinistro alzato?

Il quarto uomo indossa un cappello comprato in qualche fumosa strada di Londra. È appena arrivato dal Continente, e per lungo tempo intratterrà rapporti esclusivamente con la madrepatria, ignorando di essere agli antipodi, in un continente chiamato Oceania, confinante con le tigri orientali che ora cominciavano a ruggire. È il 1829. Poco distante una lapide commemora la caduta di un albero, sul cui esatto luogo è stata fondata la città. E’ un padre fondatore, bisogna portare rispetto alla sua memoria anche se è un ricordo lontano, anche se quell’epoca di convitti e galeotti e di sanguinose repressioni dei nativi non rende giustizia all’odierna Australia, tollerante e progredita. Chi lo sa, forse è il Capitano Stirling in persona!

L’ultimo uomo compare solo nella seconda fotografia. La Storia si è fatto beffe di lui, che pure era stato il primo europeo a mettere piede in Terra Australis. L’aveva chiamata Nuova Olanda, in memoria della lontana terra natia. E poi che è successo? Come mai aveva trovato questa terra inospitale, le sue terre poco fertili e le sue acque non utilizzabili? Come mai ha successivamente esplorato quest’area, mandando indietro resoconti che ora sono gelosamente conservati in biblioteca, e non ha mai pensato di fermarsi? Ci sono poche risposte, la Storia, si sa, non si interroga molto sul destino di chi la Storia non la fa. L’Uomo Olandese venne qui nel 1697, notò i cigni neri svolazzare sul fiume e lo chiamò Swan. Poi tornò a casa.

Post scriptum: l’ultimo uomo c’è ma non si vede, o meglio, non è mostrato. È il più vecchio di tutti: ha 40.000 anni. Ma dell’Uomo Arborigeno e delle sue sventure vi parlerò un’altra volta.

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La luna e sei soldi

Ieri sera volevo prendere una birra dal frigo prima di infilarmi nel treno che mi avrebbe portato in città, avevo trangugiato in fretta ciò che restava della frittata di cipolle e una birra ci stava proprio bene, quando mi sono ricordato che, se l’avessi fatto, avrei commesso un reato. In Australia è illegale bere in pubblico, al di fuori dei posti autorizzati – licensed – ed è passabile di multa. Che succede, mi dico, dove sono capitato, che posto illiberale e bigotto è mai questo. Lo stesso malumore che mi prende quando penso che lavorare 50 e più ore alla settimana ti svuota di ogni energia e non ti lascia nemmeno il tempo di farti un amico. Vado alla festa d’addio di C. e lo dico a tutti, che cazzo. Il posto si chiama Moon ed è là che ci ritroviamo per l’ultima volta.

Gina Rinehart è la più ricca donna australiana, erede di una grande fortuna nel settore minerario che ora vale 20 miliardi di dollari. Ieri aveva detto che l’Australia rischia di perdere la sua posizione dominante per l’alto costo del lavoro. I manovali dall’Africa sarebbero disposti a lavorare nelle miniere per 2 dollari all’ora. E gli Australiani, ha continuato, dovrebbero impegnarsi di più, bere e fumare e socializzare di meno, se vogliono raggiungere il successo. Il successo, ma cos’è il successo, ci pensavo in giornata dopo aver guardato il video di Michelle Obama alla convention democratica mentre stiravo la camicia che avrei utilizzato l’indomani al lavoro. Lei diceva che il successo si misura dalla capacità che ha un uomo di migliorare la vita di altri uomini. Gli Australiani, a quanto pare (almeno quelli la cui voce è filtrata attraverso il campione delle interviste televisive) non hanno preso bene le parole della magnate australiana, che invece lo misura in soldi, in status sociali: hanno detto che un barbecue e qualche birra dopo il lavoro sono un loro diritto, quasi come se fossero il corrispettivo della felicità costituzionalmente garantita negli Stati Uniti.

Qualche birra dopo il lavoro. E andiamo a berne un paio, mi dico, anche se non costan pochi soldi. È evidente che qui hanno un problema: i giovani aborigeni del Nord del Western Australia si suicidano a un tasso quadruplo rispetto a quello normale, spesso sono in preda all’alcol quando scelgono un albero a cui impiccarsi. Sarà per questo che la politica di accesso all’alcol è così restrittiva. Mi viene da pensare che proibire l’alcol in pubblico sia la cosa più facile da fare, e anche la più inutile: i giovani aborigeni portano dentro una ferita la cui origine non conoscono, portano un peso doloroso sulle spalle e non sanno il perché.  Sì, sono d’accordo con chi dice che il successo è la capacità di vivere migliorando la vita di altri uomini. Le comunità di recupero stanno però chiudendo, i soldi che arrivano si disperdono in spese burocratiche e poco trasparenti, e così l’unico modo con il quale si crede di poterli aiutare è proibire l’alcol.

Meno male che ci sono i pub, meno male che stasera non lavoro e posso concedermi una birra con C. e con gli altri. Il pub è di stile inglese e l’odore degli interni, in questo poco affollato mercoledì sera, mi ricorda l’Inghilterra. Strano che a mancare sia più il posto dove ho trascorso questo strano anno che la madrepatria dove ho trascorso una vita. Gli schermi trasmettono le partite inglesi che i pochi avventori guardano con attenzione. In realtà il posto si chiama The Moon and the Sixpence. Nessuno ha letto il libro tranne C. La serata scorre via ed è il tempo di prendere l’ultimo treno per tornare a casa. Con la testa tra le nuvole australi, pensando a tutte queste cose, perdo la mia fermata. Indietro tornano solo stanchi treni con la scritta sorryimnotinservice. Un altoparlante mi chiama, mi avvicino al citofono: il prossimo treno si sarebbe fermato solo per me, autorizzazione speciale. L’autista mi sorride e mi dice no worries. Che posto strano è mai questo, mi dico. Domani lo racconto a C., penso, ma poi mi ricordo che domani sarà già in viaggio per il Nord, curioso quanto me di visitare le comunità aborigene. Peccato che se ne va, era un buon amico.

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La vera integrazione si fa a letto

Si continua a girare, le persone entrano ed escono dal ristorante che gira, in poche ore si concentra un’umanità credo abbastanza rappresentativa, ma le mie sono solo impressioni, impressioni basate su un campione che però presuppongo rappresentativo. E alla fine quindi anche il matrimonio è stato celebrato, una noia mortale di celebrazione che eppure ha sancito l’affermazione sociale dei due sposi, i quali hanno regalato agli invitati la sensazione di essere parte di qualcosa, offrendo loro la vista del loro amore dall’alto dei 33 piani del grattacielo sul quale è situato il ristorante dove lavoro.

Tutto si è svolto in fretta e io ho potuto vedere per la prima volta il blu del mare, quello vero, non il palliativo sbiadito del fiume Swan che al confronto non possiede la stessa capacità di placare quell’indefinito nell’animo, e chissà se anche le persone presenti avranno colto la differenza, mentre ascoltavano i discorsi che si susseguivano tra una portata e l’altra, una noia resa ancora più mortifera dalla supposta ironia con la quale era tutto ammantato. Culture che si mischiano, diceva qualcuno che la vera integrazione si fa a letto. E stereotipi che resistono e altri che crollano: la cortese deferenza asiatica è un mito che sussiste solo quando non esistono rapporti gerarchici tra le persone.

La mia collega coreana vuole tornare a casa, mi dice che io sono nice nei suoi riguardi ma molti australiani don’t nei confronti degli asiatici in general, a meno che non partecipino a un matrimonio al 33 piano di un grattacielo, a meno che gli asiatici in questione non siano gli sposi e non abbiano già preventivamente sancito un altro tipo di ascesa, l’ascesa sociale infarcita di status symbol concreti e misurabili secondo il linguaggio a tutti più noto, e allora a loro si rivolgono bensì sorrisi, anche se il loro inglese continua ad essere spurio e traballante quando si avventurano in lunghi discorsi durante i quali mi perdo piuttosto nella contemplazione del mare da lassù.

Chissà se qualcuno si è divertito, alla fine. Boquet non ne sono stati lanciati, nessuno si è ubriacato a morte e nessun nuovo amore è nato durante un ballo sudato. Il tutto si è volatilizzato in tre ore scarse, con i tempi dopati del ristorante che già si preparava per la cena, prossimo giro prossima portata. E nessuna indolenza tipicamente mediterranea, anche se nella lista degli invitati avevo scorto un Francesco e una Clara, nessuna cintura sbottonata a celebrare il gargantuelico evento. Compattezza asiatica, di quelle più adatte ad affrontare il pragmatismo australiano: resiliente al punto giusto da adattarvisi e farlo proprio. Il pranzo è finito, andate in pace.

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